Migranti: un problema, non un'emergenza.

Analisi delle conclusioni del Consiglio Europeo del 28 Giugno 2018


Zoltan Kovac
Nella foto: Zoltan Kovac - portavoce di Orban e uno tra i promotori della lotta ai flussi migratori illegali

Le 13 ore di Bruxelles non  hanno risolto una crisi umanitaria, non hanno salvato alcuna vita. Una cinica spartizione di numeri, quote e cifre, in un’indefinita divisione di responsabilità.
Come in ogni battaglia, ci sono vincitori e vinti. Tra i primi la Merkel, col suo bell’accordo sui movimenti migratori secondari e il blocco di Visegrad con la promulgazione in tutta Europa dei propri principi, tra populismo, xenofobia e nazionalismo. 
I vinti sono tanti e fin troppi i caduti. L’Italia rimane in prima linea, con giusto qualche pacca sulla spalla e qualche forse di troppo; la Spagna e la Grecia rimangono in balia di una mareggiata di cadaveri che da anni ne lambisce le coste. 
La Bulgaria, modesta e defilata, strizza l’occhio a Mosca, certa di una Turchia forte e ben sovvenzionata, pronta a blindarne la frontiera. 
I caduti sono sempre gli stessi: donne, uomini e bambini rimbalzati da un carnaio all’altro.
Un’analisi approfondita delle conclusioni pubblicate dal Consiglio Europeo, sull’incontro del 28 giugno potrebbe aiutare a comprendere quanto stia accadendo o quanto forse accadrà sul territorio comunitario e non solo.

Sin dalle prime righe si nota una generalizzazione fuorviante, definendo l’intero fenomeno migratorio come una fattispecie illegale; a tal proposito pare doveroso menzionare l’apertura del Corridoio Umanitario Balcanico, istituito dalla stessa Europa, capeggiata dalla Merkel, nel segno di una responsabilità comune. Solo a diversi mesi di distanza, dall’Ungheria partì un grido di protesta, in nome del patto di Dublino, di Schengen e di un becero nazionalismo populista. 
Scorrendo tra le righe del comunicato, si fa viva sempre più l’intenzione di bloccare il flusso migratorio alla sorgente: l’Africa. Il punto in questione necessita di un minimo di riguardo. Le zone nominate sono la regione del Sahal, la Libia e il Marocco. Sembrerebbe che l’obiettivo sia fermare il transito e non l’origine. La storia ci ha dimostrato, più volte, quanto si inutile arginare un fiume in piena. 
Un ulteriore punto di interesse nasce quando l’Europa tutta si impegna ad incrementare i propri rapporti economici con l’Africa, dettaglio importante per un possibile sviluppo reciproco, ma di quali rapporti si tratta? Le principali note di scambio con il continente submediterraoneo sono strettamente legate allo sfruttamento delle sue risorse naturali e al mercato delle armi. Non a caso due tra i principali fattori di instabilità nelle nazioni coinvolte passivamente, dando vita ad espropri, scontri e corruzione, quindi a guerre e migrazioni. 
Del quadrante orientale del Mediterraneo, si accenna in poche righe, dando ad intendere che la risoluzioni di ogni problema spetti alla Turchia, fedele alleato e ottima diga armata. Una frontiera blindata dal denaro comunitario. Del sovraffollamento del Libano non s’accenna verbo. 
Nota particolarmente controversa: viene elogiato l’operato Bulgaro; la frontiera più corrotta d’Europa in mano alla mafia più potente dei Balcani. 
Nel vivo delle conclusioni legate alla questione migratoria, si accenna al nuovo principio di redistribuzione dei migranti: su base volontaria. Poco dopo viene specificato che il trattato di Dublino resta ancora in vigore. Qui è necessario capire nel dettaglio cosa intendano, ma a rigor di logica non si parte da una semplice risoluzione.
Il trattato di Dublino prevede, o meglio prevedeva, numerose fattispecie. Il principio cardine della sottoscrizione consta nella regola in base alla quale, un richiedente asilo abbia il diritto e il dovere di fermarsi nel primo stato europeo in cui viene registrato, di norma il primo in cui approda. La pena per uno spostamento infracontinentale è il push-back verso lo stato d’arrivo. 
L’illogico dettame veniva calmierato del sistema di rilocation: le varie nozioni sottoscriventi, non esposte direttamente ai principali flussi migratori, si spartiscono i migranti secondo quote prestabilite, al fine di smorzare la pressione sugli stati di frontiera. 
Stando ai nuovi dettami europei, questo quote non son più fisse ma bensì volontarie. Il blocco di Visegrad e la Merkel ringraziano. 
I paesi più esposti (Italia, Spagna e Grecia) hanno ricevuto solo qualche promessa sulla divisione di costi e responsabilità alla frontiera, con la futura istituzione di nuovi centri d’accoglienza sorvegliati. Il fantasma dei centri di detenzione forzata ha preso forma e vita. 
Un ulteriore punto di confusione prende piede tra le righe: la promozione di rimpatri umanitari volontari. Tale fattispecie, rinominata spesso Deportation e basata su principi volontari, ha origini piuttosto ingloriose. Nel testo si accenna ad un miglioramento delle condizioni e dei diritti dei richiedenti asilo. Questo non va di pari passo alle motivazioni legate al rimpatrio volontario.
Il migrante che volontariamente accetta di essere rispedito al luogo da cui è scappato, dopo aver speso gran parte dei propri risparmi e aver rischiato la vita per mesi, in un ignobile viaggio tra deserti, mari e trafficanti, di certo non getta tutto alle ortiche se non per un buon motivo. 
I volontari sono generalmente persone sfinite, all’apice della disperazione, spesso costretti a condizioni di vita disumane o nella morsa di una burocrazia volutamente farraginosa. 
Per aumentare le deportazioni volontarie, il miglioramento della macchina ricettiva non è di certo un presupposto funzionale. 
Delle 10 pagine di conclusioni pubblicate, appena tre e mezzo sono dedicate alla questione migratoria, il resto tratta di sicurezza e sviluppo economico, con un’inquietante attenzione allo sviluppo dell’industria bellica.

Un verdetto poco risolutivo, una discussione dalle fondamenta deboli. Non sembra esserci interesse a curare la malattia, ma solo a lenirne i sintomi. Un finale aleatorio, uno scarica barile ininterrotto, fiato sprecato.